Una sarabanda di libri a caso #6

Ho deciso che questa sarà, per il momento, l’ultima sarabanda di libri che vi propongo: è stato bellissimo avere un filo da seguire in queste settimane, un impegno che sono riuscita a portare avanti con felicità. La realtà è che scegliendo questi ultimi continuavo a dire “oddio ma devo parlare anche di lui”, “no ma quest’altro che bello!!”, però adesso anch’io andrò una settimana in vacanza e al rientro sarà magicamente settembre, e a settembre bisogna fare posto per nuovi progetti.

I libri che sono usciti questa volta dai miei scaffali sono storie d’amore; mi sono resa conto che nella mia libreria, a dir la verità, non ce ne sono tante, e anche queste non ne seguono i dettami classici. Mentre rifletto su questa scoperta sconcertante, vi lascio la consueta listina:

  • F. Scott Fitzgerld, Tender is the Night, Penguin Modern Classics 1934 (first published): prima di The Great Gatsby, per me, c’è stata Tenera è la notte, letto in quel di Dublino undici (argh) anni fa. Mi fa impressione rivedere le frasi che ne avevo sottolineato: è una storia che mi ha emozionata tantissimo, fino alle lacrime. Rimasi stregata dalla scrittura di Fitzgerald, dalla sua minuta capacità di descrizione e introspezione, e dal disagio profondo che la storia d’amore tra Dick e Nicole portava con sé. Una lettura cardine della vitah.
  • Iacopo Barison, Stalin + Bianca, tunué | romanzi 2014: il secondo nato della mirabolante collana dei romanzi tunué è una storia d’amore platonica post-adolescenziale, semi-distopica, super bella. Di quelle che non ti aspetti, che hai paura sia piena di cliché e facili ami per il lettore, e invece no porca miseria, e allora ti ritrovi a divorare ogni pagina, a struggerti per i protagonisti, a preoccuparti per loro, ad apprezzare la delicatezza e la profondità della scrittura con un magone che faticherà a scomparire.
  • Niccolò Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, Einaudi 1999: le pagine di questo libro sono gonfie di salsedine: ho la brutta abitudine di appoggiare i libri che leggo al mare sulla pancia bagnata. E allora questa storia sa di mare, anche se il mare non c’è. Ci sono Pietro e Graziano, la provincia, delle vite strampalate, delle piccole grandi tragedie. C’è il primo Ammaniti, e oh, a me garba un casino. Per me questo è un libro che parla d’amore, quello pazzo, quello dell’infanzia, quello che racchiude tutta l’esistenza.
  • Sergio Oricci, Cereali al neon, effequ 2018: non so se esiste un numero legale di volte per cui si possa consigliare un libro. Finché posso, non mi stancherò mai di consigliare questo romanzo incredibile, di cui l’unica cosa che mi è sempre venuta da dire è: “parla d’amore”. Ricordo i brividi fortissimi della prima volta che l’ho letto: di quando ritrovi sulla carta la descrizione di sensazioni fino ad allora nebulose e riparate da strati ingombranti che, finalmente, hanno trovato la via della fluorescenza.

È davvero questo, l’amore? Ne avevamo sentite tante, ma mai nessuno ce l’aveva descritto così. Due corpi in fusione, in viaggio verso un rapidissimo e doloroso decadimento. Ci destrutturiamo a velocità supersonica.
  • Eve Harris, Il matrimonio di Chani Kaufman, LiberAria 2016: un’altra lettura che, dopo anni, sembra appena essersi conclusa. La vicenda di Chani e della comunità ebrea ultraortodossa in cui vive sono un microcosmo inizialmente imperscrutabile – ma che poi si dipana e quasi quasi arrivi a capire (forse pure ad ammirare) chi riesce a seguire delle tradizioni che sembra impossibile abbiano a che fare con l’amore – finendo poi inevitabilmente per provare rabbia e smarrimento. È un romanzo che un po’ disturba e un po’ diverte, perfetto per dare aria ai pensieri e a renderti conto, ogni volta di più, che questa vita è dannatamente complicata.

Buone letture, e a presto. Io vado a respirare il mare.

B.

Andrea Zandomeneghi, Il giorno della nutria

Cose che so di me stessa in maniera definitiva e categorica: non potrò mai avere un rapporto asettico con i libri. Ci provai una volta per scrivere una recensione che mi fu chiesta (e poi mai uscita), e mi sentii talmente estranea a quello che provavo a proposito del libro e a quello che volevo effettivamente dire che mi ripromisi che non sarebbe più accaduto. Ecco perché ormai la parola “recensione”, quando parlo di un libro sull’internet, si è svuotata del suo senso primario, è solo di comodo. Questa non è una recensione (ne stanno già fioccando una via l’altra, sono ordinatamente reperibili sulla scheda on-line di tunué) , è finalmente il racconto di una lettura che aspettavo di fare da anni – da quando cioè ho letto il primo folgorante capitolo su degli A4 sgualciti e poi da me riempiti di sottolineature e glosse durante il corso di scrittura alla Cité – e che adesso vorrei tantissimo che faceste anche tutti voi.

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Reperti storici di un certo rilievo – io fossi in voi terrei d’occhio anche la compagna di banco dello Zando

A fine ottobre Il giorno della nutria è stato presentato a Pistoia a L’anno che verrà: è lì che ho visto per la prima volta l’iconica copertina del romanzo d’esordio di Andrea Zandomeneghi, e assaporato l’attesa attraverso la lettura di qualche passaggio, il pubblico incantato e l’editor (giustamente) gasato. Quando Goodbook.it mi ha chiesto, a dicembre, di raccontare la novità editoriale da me più attesa del 2019, non ho esitato, indicando la nutria, i perché e i per come. Bene, i mesi son passati, il romanzo è finalmente uscito, io me ne sono impossessata e l’ho letto in una manciata di ore, fregandomene di centellinarmelo, sottolineandolo forsennatamente, riempiendolo di cuori ma soprattutto godendo tantissimo.

Sì, perché non solo il capitolo 0 e il capitolo 1 hanno raggiunto la perfezione, ma perché anche il resto del romanzo è pazzesco, nuovo, glorioso. C’è tutto quello che mi fa impazzire: un protagonista immerso nel disagio (Davide Aloisi) la provincia (Capalbio!) l’alterazione dei sensi (alcol analgesici psicofarmaci e thc) la commistione tra alto e basso il citazionismo i dilemmi esistenziali la realtà che si confonde col sogno personaggi al limite del grottesco (la madre allettata Eufemia, il nipote Giulio, la badante Dorota con il figlio Esteban, l’amico Emanuele, Don Stefano e altri ancora) la malattia l’ironia l’alterità la colpa lo sprofondare nel baratro l’accumulazione e le parole, le parole della lingua italiana che si ergono splendide sulla pagina e ti fanno smuovere le budella e prendere il dizionario. La sintassi, l’elaborazione strutturale della storia, l’assenza di manicheismo, l’assenza totale di espedienti narrativi del cazzo, il superamento del terrore di fare qualcosa di diverso, le cose che sono dette, il modo in cui sono dette, la necessità che fossero dette. E quella nutria mezza congelata e scorticata che fa da perno alla giornata (interiore ed esteriore, mio binomio prefe della letteratura) che ci viene raccontata dal protagonista Davide.

Respiro affannato e irregolare. Sembrò far capolino tra un’ispirazione e l’altra la fame d’aria, pessima in sé ma soprattutto segno di attacco di panico in agguato. Mi immobilizzai, chiusi gli occhi, provai a mappare la situazione, a darle forma, a prendere atto. Grande stronzata strategica: tutto era istericamente metamorfico, turbine d’ideazione mercuriale, la mente […] s’era frammentata sotto il segno dell’incoerenza […].

L’esordio di Andrea Zandomeneghi è uno spartiacque, qui lo dico, mi siete testimoni. E io che credo nei destini incrociati e nelle cose buffe della vita, non potrò mai smettere di gioire ripensando a quella primavera del ’16 in cui per la prima volta ho conosciuto la nutria.

B.