Dieci anni fa ho fatto l’Erasmus. Potrei scartavetrarvi i coglioni su cosa pensi in generale della possibilità di poter trascorrere un periodo di studio all’estero, ma non lo farò perché penso sia abbastanza deducibile. Ho bisogno invece di far fuoriuscire le voci inside my head dopo che ieri ho cenato con i miei irlandesi – che non vedevo da cinque anni.
Qui è dove vi avevo raccontato delle condizioni in cui vertevo quando ero a Dublino, se volete rifarvi due risate. A peggiorare le cose c’era il mio stramaledetto e precocissimo senso del dovere, che mi aveva imposto il dazio del lavoro se volevo sbronzarmi ammerda nei week-end – sì, ho avuto un Erasmus difficile perché è molto difficile essere me, ed era ancora più difficile essere me quando non bevevo la birra – che grande idea l’Erasmus a Dublino, direte voi!
L’oscillazione perpetua e contemporanea tra forze totalmente opposte è un po’ una #storyofmyfuckinglife. Nel disagio irlandese ci sono state molte cose belle, tra cui il mio lavoro come nanny-italian teacher al piccolo Jack, che allora aveva due anni. Due anni sono pochi. Forse non mi rendevo conto di quanti pochi fossero, due anni. Ma io ne avevo venti, e forse non mi rendevo nemmeno conto di quanti pochi fossero, vent’anni. La situa: madre e padre irlandesi innamorati dell’Italia, tanto che ci si sono sposati e ci hanno pure comprato una casa per le vacanze – fatalità della vita, proprio nell’alta Toscana, e avevano pensato di affiancare al babysitteraggio del loro pargolo pure qualche nozione di italiano. Io ovviamente esaltatissima per tanto progressismo e tanta lungimiranza, ero alla mia prima esperienza lavorativa – e avevo una paura fottuta. Ma Julie mi ha sempre sorriso. Sempre. Dal colloquio alla cena di addio in un ristorante italiano dove suo marito mi fece sbronzare tantissimo – e io mi vergognavo un sacco perché pensavo forse che gli adulti non si sbronzassero ammerda, ahah!
Non mi ha mai fatta sentire una cretina, anche se non capivo bene la lingua, anche se andavo vestita come una homeless a tenergli il figliolo, anche se una volta l’ho chiamata con la voce spezzata perché avevo perso la mia paga nel suo vialetto – e lei mi pagò di nuovo, anche se una volta non sono riuscita a calmare il piccolo Jack a cui venne una crisi di pianto inconsolabile, e io allora piangevo con lui, lui voleva la mamma e io volevo casa, un concetto di casa che allora era del tutto generico e che ci ho messo dieci anni a definire.
Con Jack abbiamo fatto molti puzzles, ragionavamo di cose a caso e ci facevamo tante coccole. In quella casa di Blackrock avevo trovato la mia culla di benessere, e vi ottenni anche il più grande successo della mia vita. La passione di Jack era Finding Nemo, lo guardavamo a rotazione, ma io gli rompevo le palle interagendo con lui in italiano. Un giorno gli ho chiesto in inglese chi arriva adesso?, e lui mi ha risposto con un sonoro LO SQUALO!!! Lì mi sono sentita potentissima, abbiamo riso tanto, me lo sono spupazzata tutto, e ho raccontato questo aneddoto forse più volte di quelle che abbiamo visto Nemo insieme. E ieri, ora che ha quasi tredici anni, se lo è ricordato, e non si è nemmeno vergognato a dirlo, anche se poi ha passato gran parte della serata al telefono – ha tredici anni, lo dobbiamo solo lasciare perdere. Io mi sono dedicata alle sue sorelline – che nel frattempo si sono palesate al mondo, abbiamo avuto conversazioni stupende su tutta la loro esistenza, e alla fine hanno fatto come faceva il piccolo Jack (che ieri avevo paura mi mangiasse insieme alla sua pizza salsiccia e cipolla) gli ultimi giorni di Dublino: mi hanno abbracciata forte pregandomi di rimanere.
E quindi sì, rimango. E forse penserò anche a tornare in terra d’Irlanda per salutare la me, smostratissima, ventenne – e dirle che le volevo già bene.
B.
E pure io te ne voglio.
"Mi piace"Piace a 1 persona